GenteOnLine, il forum decalcificato

Posts written by tata ogg

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    ALZARE IL VELO (libera interpretazione di: io ve l'avevo detto. ndr)

    Leggere le piaceva molto e in fatto di libri Viviana era piuttosto onnivora. Ma nelle lunghe ore morte delle sue trasferte lavorative a volte persino leggere le veniva a noia perché alla lunga le pareva di estraniarsi troppo dal resto del mondo. Era un tipo socievole e faceva amicizia facilmente e volentieri, ma la difficoltà era coltivare amicizie durature essendo un giorno qui e un giorno là, a volte anche con qualche migliaio di chilometri tra qui e là.
    Una cosa che da un po' di tempo la divertiva abbastanza era la chat. Dopo un po' di frequentazione era giunta alla conclusione che il pubblico delle chat era così composto: il 60% dei frequentatori erano masturbatori più o meno abituali, in cerca di qualcosa di più eccitante (almeno mentalmente) di un porno qualunque. Queste persone si nascondevano dietro ad un nickname di fantasia e lì rimanevano al sicuro, innocui quanto noiosi; il 20% circa, secondo la sua stima, desiderava incontrare nella vita reale altre persone con cui fare sesso; il 15-17% cercava l'anima gemella. Rimaneva una piccola percentuale, intorno al 3-5% di gente potenzialmente interessante che, come lei, aveva il piacere di conoscere le persone, incontrarle anche solo virtualmente, per un semplice scambio umano. Comunicazione senza secondi fini, per il gusto di farlo, come si fa con le altre mamme o papà fuori da scuola o al parco e a furia di incontrarsi e di fare due chiacchiere, si comincia ad approfondire la conoscenza e quando c'è affinità può nascere l'amicizia.
    I bambini a scuola, Viviana riusciva ad accompagnarceli solo ogni tanto. Quello era uno dei compiti di suo marito.
    Insomma, la chat per lei era un'occasione di socializzazione che si era creata ad hoc. Certo il lavoro di scrematura era un po' noioso, ma qualche volta, nel bailamme delle mille voci virtuali, era riuscita a trovare persone che promettevano di essere interessanti ad approfondirne la conoscenza.

    Un pomeriggio, in una saletta executive di un hotel dove era confinata per un dispersivo pomeriggio di attesa-barra-lavoro, incontrò nella solita chat un tizio che pareva corrispondere alla minoranza della sua personale statistica. Innanzi tutto capì da subito, per quel che scriveva ma soprattutto per come lo scriveva, che si trattava di una persona più scolarizzata della media, decisamente molto di più, essendo la cultura media dei frequentatori di chat piuttosto bassa.

    Quella sera, all'appuntamento telefonico quotidiano con la famiglia aveva qualcosa da raccontare al marito, che non fossero noiosissime questioni di lavoro. Fu lui stesso ad aprire l'argomento:
    «Allora, Serena ha trovato nessuno di interessante oggi in chat?» Serena era il nickname che Viviana si era scelta per le sue chiacchierate virtuali.
    «In effetti sì! Da non crederci! Pensa, si tratta nientemeno che di un professore universitario!»
    «Ma figurati! Ti ha presa in giro!» rise suo marito
    «L'ho pensato anche io, all'inizio, ma mi ha detto dei particolari e... l'ho trovato sul web. E' proprio vero!».
    «Ti ha dato la sua vera identità?! Non l'avrai fatto anche tu, spero!» chiese preoccupato lui.
    «No, no. Lo sai che non lo faccio mai!» lo tranquillizzò lei.
    «E cosa insegnerebbe?» chiese diffidente.
    «Qualche materia relativa al cinema.... “Storia del cinema” .... qualcosa così.»
    «Ma dai? E come si chiama?».
    «Leonardo. Leonardo Genovese.»
    «E cosa fa un professore universitario in chat?».
    «Cosa vorresti dire?» chiese lei fintamente piccata «Forse che in chat ci vanno solo i cretini?».
    «Ma no, dai. Però devi ammettere che i cretini abbondano!».
    «In effetti» ammise lei, poi riprese: «Comunque è proprio quello che gli ho chiesto: cosa ci fa un professore universitario in chat. Mi ha risposto che è curioso, che cerca persone interessanti, che lo appassionano le persone...».
    «Insomma ti ha intortato per bene!».
    «Sei un cinico! Potrebbe pensare la stessa cosa lui di me!».
    «In effetti hai ragione. Spiegami ancora cosa ci trovi in questa chat, a parte orde di uomini che ti si vorrebbero fare?».
    «Scemo. Lo sai che amo solo te e che in chat ci vado solo per interesse antropologico e per fare due ciance.»
    «Lo so, lo so. Ma fammi stare tranquillo, eh! Non dare mai indizi che ti facciano rintracciare. Il mondo è pieno di pazzi.»
    «Lo so. Certo. Non preoccuparti.»

    In realtà lei stessa si era chiesta perché mai il professore universitario le avesse fornito indizi così chiari per rintracciarlo. I motivi potevano essere svariati. Non era da escludere che fosse qualcun altro a spacciarsi per lui. Oppure semplicemente si trattava di una persona onesta e limpida che non aveva niente da nascondere né da temere. A questo pensiero si sentì un po' in colpa per non essere stata altrettanto trasparente e per un momento vacillarono i buoni propositi di mantenere l'anonimato chattando in sicurezza. O forse era solo un po' sprovveduto e meno ansioso di lei e suo marito.

    Né il giorno dopo né quello dopo ancora ritrovò il nuovo amico in chat. Come spesso le capitava, dopo l'inattività passata era stata presa invece dal vortice di cose da fare ed aveva avuto solo pochi minuti per collegarsi, minuti nei quali l'altro non era a sua volta online. Dopo qualche giorno, poi, aveva quasi dimenticato la nuova conoscenza virtuale e fu proprio suo marito a ricordargliela, chiedendole novità dal “mondo che non c'è”. Ma novità non ne aveva e il discorso virò ad altro.
    Fu una sera da casa, la settimana successiva, che con sorpresa Viviana ritrovò “LeoPardo” tra gli amici presenti online. Chiacchierarono piacevolmente per una mezz'ora poi l'internauta “Serena” scrisse:

    [Serena]
    ora devo salutarti
    mio marito mi reclama!

    [LeoPardo]
    è giusto
    dedichiamoci ai nostri rispettivi partner
    ma questa volta scambiamoci gli indirizzi email, così sarà più facile ritrovarsi in chat


    Viviana ci pensò un attimo prima di rispondere. Ma sì, poteva tranquillamente dargli l'indirizzo che riservava per siti commerciali, junk mail e che utilizzava quando, come in questo caso, voleva mantenere l'anonimato.
    Prima di spegnere il computer, Viviana entro in quella casella email e digitò un messaggio per LeoPardo:

    Ciao!
    Giusto per vedere se l'indirizzo è giusto....
    A presto.

    Fu sorpresa di sentire il suono della posta in arrivo mentre stava per cliccare sulla X per chiudere l'applicazione. Era la risposta al suo messaggio!

    Avevo avuto la stessa idea!
    Buona notte.

    Fu una piacevole sorpresa che le mise allegria. Quando lo disse a suo marito lui mostrò la solita diffidenza:
    «Presto ti chiederà di incontrarlo in un motel di periferia.»
    «Ma dai. E poi è felicemente sposato.»
    «Beh, certo. Ti aspetti che ti dica che in realtà è un gran marpione che abborda le signore in chat per portarsele a letto?».
    «Anche se le cose stessero così avrebbe vita dura visto che io non ho nessuna intenzione di dirgli come mi chiamo e dove trovarmi.»
    «Lo spero bene. Sei troppo fiduciosa negli altri.»

    Viviana era fiduciosa negli altri. Troppo chissà. Trovava piacevole la compagnia di Leonardo e le piaceva leggere di lui. Dal canto suo gli raccontava di sé cose anche abbastanza private, ma sempre rimanendo nell'area di sicurezza che si era prefissata. Il suo nuovo amico era molto galante, ma in maniera delicata e mai volgare. Un vago sottofondo di flirt si percepiva, ma rimaneva nell'ambito del complimento signorile ed era un gioco piacevole ed innocuo.
    Parlavano del più e del meno, ma anche di cose più profonde. Viviana lo trovava simpatico, anche se si era fatta l'idea che avesse un ego molto pronunciato e fosse un po' vanitoso.
    Lei era molto curiosa della sua attività di docente, ma di quello lui non parlava molto. Un giorno gli chiese cosa pensassero gli studenti di un professore così giovane (aveva detto di avere trentotto anni) e lui fu abbastanza evasivo.
    Ogni tanto lui le chiedeva di poterla vedere in foto. Lei non voleva. In parte per pudore, in parte perché le pareva una sorta di violazione del codice non scritto che sottostava alla loro amicizia virtuale e poi perché sapeva di non essere una bellezza da foto. Era una signora, un po' appesantita dagli anni, che non era mai stata una femme fatale nemmeno da giovane e, anche se un suo fascino lo aveva (e aveva anche un certo numero di “tacche al suo fucile”) era il tipo di fascino che funzionava di persona più che in foto.
    Negli ultimi giorni la richiesta di Leonardo si era fatta insistente. Anche lei era curiosa, ma al contrario di lui aveva potuto trovare in rete delle foto che lo ritraevano. Da quelle immagini si era fatta l'idea che non fosse il suo tipo, almeno fisicamente. Non riusciva a chiarirsi cosa non le piacesse, ma trovava che nel complesso non era una persona con cui avrebbe potuto avere una storia nel mondo reale. E questo, anche se non lo ammetteva nemmeno con se stessa, la confortava: per l'amicizia che le interessava andava benissimo così. Che importanza poteva avere l'aspetto fisico? Era quello che rispondeva anche a lui quando le sue richieste diventavano più pressanti:

    [Serena]
    ma che ti importa che faccia ho? che peso ha in un rapporto di amicizia virtuale?
    immaginami come ti pare!

    Ma lui era tenace:

    [LeoPardo]
    non ha importanza, è vero, ma sono curioso.
    in fondo tu hai visto me...

    [Serena]
    è stata una tua scelta darmi i dettagli perché potessi vederti sul web.
    e poi, se non ti piacessi?

    [LeoPardo]
    ma è stata una tua scelta andare a cercare le mie foto.
    non cambierebbe proprio niente, perché dovrebbe?
    e comunque sono sicuro che mi piaceresti.

    Ma Viviana resisteva, anche se capiva la curiosità di lui. In fondo lei la propria l'aveva soddisfatta. O meglio, aveva soddisfatto quella di vederlo in foto, ma non quella di sapere cosa si diceva di lui in facoltà, che opinione avevano di lui i suoi studenti.

    Un giorno lui le annunciò che sarebbe stato assente da casa, e dal web, per una settimana perché sarebbe partito per una vacanza con la famiglia.
    Viviana in quella settimana sentì la mancanza del suo nuovo passatempo e cominciò a gironzolare per la rete più o meno oziosamente, fino a quando si imbatté nel forum degli studenti della facoltà in cui lavorava Leonardo. Cominciò a leggere qua e là, cercando discussioni e post in cui si parlasse di lui. Non trovò granché di interessante, solo alcuni scambi di informazioni sul suo esame e su come trovare le sue dispense. Solo in un post una ragazza parlava di lui dicendo che era una persona gentile e un professore indulgente e che doveva essere piacevole anche nel privato.
    Viviana ebbe un'idea. Si creò un nickname (una cosa sufficientemente mimetica: Titty87) e mise un post impiegando una decina di minuti a scrivere poche righe.

    Titti87
    Ciao a tt.
    Volevo kiedervi info su un prof. Qualche settimana fa ho accompagnato una mia amica ke doveva dare l'esame di storia e critica del cinema con il prof Genovese. Ki mi sa dire qualcosa su di lui? Sono stata lì per tutta la sessione e credo di essermi presa una solenne cotta per lui. Sapete se è sposato? Ke tipo è?

    Ricontrollò più volte se aveva dimenticato qualche K e tolse l'accento a lì. Dopo qualche altro aggiustamento fu finalmente soddisfatta e premette l'invio.
    Sperava che le risposte sarebbero state numerose ed interessanti ed era convinta che anche Leonardo sarebbe stato curioso di leggerle. Già si immaginava che ne avrebbero riso insieme e che lui avrebbe gonfiato la ruota con un pavone a leggere ciò che i suoi studenti pensavano di lui.

    Intanto,Viviana pensava alla richiesta di Leonardo di avere la sua foto. Ci pensò per tutta la settimana senza parlarne affatto con suo marito: sapeva bene cosa lui avrebbe avuto da dire in proposito. Ma in fondo, si disse, che male c'è. Cercò tra le proprie foto qualcosa che potesse andare. Nessuna le dava soddisfazione. Innanzitutto siccome di solito era lei la fotografa di famiglia erano poche quelle che la ritraevano e di quelle poche ancora meno erano di qualità tecnicamente accettabile. E soprattutto in nessuna di quelle in suo possesso lei risultava passabilmente carina. Ne scelse una, la meno peggio, la allegò a una mail ed era già pentita di averla inviata ancora prima che il suo dito si staccasse dal tasto di invio. Nel testo aveva scritto, cercando di essere spiritosa:

    Eccomi, infine.
    Quarant'anni e sentirli tutti!

    Alla fine della settimana mancava ancora un giorno e lei andava spesso a vedere se il suo post sul forum avesse avuto risposte. Fu un po' delusa. Dopo due giorni le risposte erano solo quattro:

    Layka_4u
    Ciao Titti, benvenuta sul forum. perché non ci dici qualcosa di te?
    Il prof. Genovese è simpatico ma è sposato e ha una bimba, mi pare. Scordatelo!

    Starlet
    genovese ha un suo perché, ma fa un po' il marpione con le studentesse carine. tu sei carina? è un esame che mettono tutti perché regala voti alti come se piovesse.

    Brüno
    Genovese secondo me puccia il biscottino tutte le volte che può!

    @ri@
    Ma no, Genovese è uno che si fa gli affari suoi. Gentile, ti mette a tuo agio, ma non da confidenza. Ma tu chi sei che vieni nel forum e scrivi solo QUESTO post?

    Insomma, poche opinioni e non molto concordi tra loro. Decise di continuare la farsa, sperando di ottenere maggiori dettagli. Volete sapere qualcosa in più di Titti87?, chiese mentalmente al suo ignaro pubblico, va bene!, rispose e cominciò a dare un po' di contorni al proprio personaggio.

    Titti87
    Avete ragione, non mi sono nemmeno presentata. Mi chiamo Caterina, Titti per gli amici, e non sono in realtà una studentessa.

    Spacciandosi per studentessa, nel caso le avessero fatto domande sull'università, l'avrebbero presa in castagna molto in fretta, dato che si era laureata molti anni prima quando, per dirne una, i computer erano ancora utilizzati quasi esclusivamente per battere le tesi di laurea e non era mai nemmeno stata nella città sede di questa facoltà.

    Mi piacerebbe molto esserlo ma purtroppo devo lavorare per mantenermi

    Mettiamola un po' sul melodrammatico, pensò.

    e non ce la farei a studiare contemporaneamente. Ho 22 anni, amo molto leggere e mi piace la poesia.
    Una mia amica frequenta l'università e ha dato l'esame con il prof. Genovese all'ultimo appello e mi ha kiesto di accompagnarla.

    Pensò che era il caso di ridimensionare la questione.

    Non sono una ke va in giro a sedurre i professori ma trovo ke lui abbia molto fascino. Se mi dite ke è sposato mi tiro indietro e la kiudo qui. E poi mi sembra una persona seria e non mi pare affatto il tipo ke si approfitta della sua posizione. Forse è perkè voi lo fareste al suo posto?

    Ritenne che poteva bastare e sperò che qualcun altro si aggiungesse per darle qualche informazione in più.

    La settimana in cui Leonardo doveva essere via con la sua famiglia finì e lei era impaziente di conoscere la sua reazione all'invio della foto. Ogni tanto, pensandoci, si mordeva le mani per aver ceduto alla richiesta, ma poi si diceva che non aveva importanza, tanto non cambiavano i presupposti.
    Il lunedì fu molto presa dal lavoro e non ebbe modo di controllare la posta della sua casella ufficiosa. Il martedì invece finalmente ci riuscì ma di Leonardo non c'era niente. Lo cercò in chat negli orari in cui di solito era facile incontrarlo, ma non lo trovò.
    Scrisse e cancellò mille volte un messaggio che alla fine suonava come:

    Come è andata la vacanza?
    Parigi val sempre una messa?

    evitando di proposito ogni riferimento alla foto.
    Arrivò un altro weekend senza che da parte di Leonardo ci fosse nessuna risposta. La domenica sera però con sorpresa lo trovò sulla chat.

    [Serena]
    ehi ciao! allora sei tornato!
    come stai?

    La chat era lenta e intasata a quell'ora. Lui evidentemente non l'aveva vista online.

    [Serena]
    ciao Leo! mi vedi?

    [Admin]
    l'utente LeoPardo non è più in chat in questo momento.

    Si era disconnesso. L'aveva vista online ed era scappato. Non ci poteva credere: la stava evitando di proposito. Che cretina, si disse. Cretina cretina cretina, ripeteva a se stessa. Come ho potuto essere così stupida? Ma poi si diceva che non era possibile, che forse era un caso, che probabilmente si erano mancati in chat perché lui non l'aveva vista.
    Avrebbe voluto parlarne al marito, ma si vergognava di dovergli confessare di aver inviato la propria foto. Più ci pensava più si sentiva in collera con se stessa per aver ceduto alla tentazione, per aver creduto alla buona fede, ma soprattutto per essersi esposta all'umiliazione di quella situazione.
    Decise di concedergli ancora il beneficio del dubbio, in fondo consapevole che stava ulteriormente rendendosi ridicola ed inviò una mail che diceva:

    ti ho visto in chat ma forse tu non hai visto me.

    La sua mail non ebbe mai risposta.

    Delusa e piccata non aprì più la chat, ma dopo qualche giorno volle togliersi la curiosità di vedere se la sua creatura Titti avesse avuto altre risposte.
    Non appena fece il log-in si aprì una finestra che le comunicava di aver ricevuto un messaggio privato. Il mittente era un certo Wim e il messaggio diceva soltanto:

    Wim
    Ciao... Ho letto... e sono andato a registrarmi per mandarti questo messaggio :)

    Viviana rimase perplessa davanti allo schermo, poi andò a cercare la discussione che aveva aperto la sua Titti87. C'erano altre tre risposte: una di Brüno, la seconda di Layka_4u e l'ultima di una certa Lavinia che raccontava di aver avuto un leggero battibecco con il professore in questione, ma a leggerne il racconto dava l'impressione di essere stata proprio lei in torto. Nessun Wim.
    Il messaggio privato era del giorno prima.
    Viviana rispose:

    Titti87
    Sì, ma... chi sei?

    La risposta non si fece aspettare a lungo. Evidentemente, chiunque fosse, era online.


    Wim
    Sono proprio io... mi hanno colpito tantissimo i tuoi messaggi sulla solenne cotta... Certo ti riesce difficile avere le prove che sia io... Come fare?

    A Viviana prese un mezzo colpo. Ma forse era qualcuno che voleva spacciarsi per lui. Magari un altro studente.
    Cautamente rispose:

    Titti87
    Tu saresti il Professore? E perché dovresti venire in un forum di studenti e rispondere a una ragazzina? Poco credibile...

    Poco credibile, ma tutto sommato possibile. La conferma arrivò una decina di minuti più tardi.

    Wim
    Già... poco credibile... manda alla mia mail ufficiale, che puoi trovare nel sito della facoltà, un messaggio in cui mi scrivi mezza frase che io debbo completare spedendo la mail da quell'indirizzo alla tua casella di posta. La stessa frase, ma per intero, mandamela qui così so cosa debbo scrivere. Mi sento strano a fare queste cose ma mi sono imposto di farlo... Non so perché.

    Viviana avrebbe voluto urlare ma riuscì a contenersi almeno in parte e a mezza voce e denti stretti le uscì un “Brutto stronzo, lumacone, ipocrita! Ti sei imposto di farlo? Ma pensa! Vediamo fin dove arrivi.” E imponendosi di ritornare calma scrisse:

    Titti87
    Ok. Ti credo. Ma come è possibile? E perché? E cosa vuoi?

    Wim
    Mi sento quasi uno stupido. Ti chiedo scusa. Avendo letto mi hai fatto emozionare, volevo soltanto dirti questo. Se questo nostro scambio di messaggi pensi sia inopportuno dimmelo e dimenticherò ogni cosa.

    Ma guarda che signore! Pensò con ironia Viviana. Ora finge di tirarsi indietro. Si sentiva catapultata in una partita a scacchi e improvvisamente si accorse di quanto trovasse divertente giocarci. C'erano la rabbia, l'amarezza, la delusione. Ma c'era anche il gusto di stare a vedere come la cosa sarebbe andata a finire e questa volta si sentiva in vantaggio. Ok, decise, muoviamo un pedone.

    Titti87
    Non so... Di certo non mi aspettavo che mi rispondessi. Ma leggi regolarmente questo forum? Allora è vero che anche i quarantenni cazzeggiano... O lo fai per motivi professionali?

    E vediamo che t'inventi adesso, pensò. L'idea che si era fatta era che lui avesse messo in atto proprio quello che aveva intenzione di fare lei quando era entrata in quel forum: spiare cosa si diceva di lui. E chissà che goduria per il suo ego ipertrofico trovare il post di Titti87.
    Ormai lo scambio di messaggi privati era un botta e risposta, quasi in tempo reale.

    Wim
    Diciamo che anche i trentottenni cazzeggiano... Del resto non sono mai stato una persona troppo "seriosa" (-: Comunque sono rimasto sorpreso delle belle cose che hai scritto (molto di meno di quello che hanno scritto altri ma tu hai saputo dare le giuste risposte!)

    Titti87
    Posso farti qualche domanda?

    Wim
    Sì, certo! Però non risponderò adesso perché sto per uscire e ritorno in serata. Ti risponderò stasera. Anche io ti chiedo delle cose... Ma eri lì l'11 o il 13? Avrei mille altre cose da chiederti ma saprò aspettare e te le chiederò se tu vorrai...
    Bacio...

    Eccolo lì a gigioneggiare! Ah sì? Si disse lei, e allora gigioneggio anche io! E vediamo se riesci a cogliere qualche allusione.

    Titti87
    citazione [Wim] - Avendo letto mi hai fatto emozionare, volevo soltanto dirti questo. -
    A volte ci basta così poco per farci emozionare. Un apprezzamento, un sorriso reale o immaginato, una carezza dell'anima, un'affinità vera o presunta....
    Un raggio di luce ci attraversa e illumina la nostra vera essenza. Ma chi ci sarà lì a vederla?
    Un battito di ciglia e torna il buio. Nessuno si è accorto di niente
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    Viviana giocava, ma le parole le aveva scelte con cura. Sotto la maschera della ragazzina romantica, erano il disincanto e la delusione di chi si è messo in gioco e si è sentito deriso, a parlare per lei. Ma lui non sembrò cogliere se non la superficie di quelle parole. La mattina dopo trovò questo messaggio.

    Wim
    A volte basta il profumo dell'erba appena tagliata, oppure il rumore delle acque che si infrangono contro gli scogli o l'odore della pioggia nei giorni d'autunno... Non sono le cose in sé che emozionano ma il modo in cui esse vengono da noi percepite.

    Che nausea! Pensò lei. Che luoghi comuni! Che banalità! Ma dov'è l'uomo maturo e interessante con il quale chiacchieravo? Ma non riusciva a capire se il proprio giudizio fosse distorto dal rancore o se avesse conservato almeno un minimo di obiettività. Paradossalmente era proprio come diceva lui: una questione di percezione.

    Titti87
    citazione [Wim] - Non sono le cose in sé che emozionano ma il modo in cui esse vengono da noi percepite. -
    E tu in quale modo hai percepito? Quali corde sono state toccate?

    Voleva che lui si scoprisse, desiderava che si compromettesse in qualche modo, ma ci sarebbe voluto tempo e anche se la partita era divertente lei non si sentiva a suo agio. Viviana era una persona schietta e sincera. Recitare un personaggio che non le apparteneva la rendeva nervosa e stava così sulle spine da sapere bene che non sarebbe durata a lungo. Inoltre dal giorno prima, impegnata com'era soprattutto emotivamente in questa cosa, aveva anche trascurato un po' lavoro e famiglia.
    Ma lui non faceva passi falsi.

    Wim
    Piccole cose... Ma tu piuttosto cosa ti ha fatto prendere una cotta per me?

    Titti87
    citazione [Wim] - Piccole cose...-
    Non pensare di cavartela così.
    Come mi hai trovata? Giri normalmente nel forum per studenti? Fai ricerche per sapere se qualcuno parla di te? Qualcuno ha "spifferato"?
    Sei innamorato di tua moglie? Sei soddisfatto del tuo matrimonio?
    Cosa ti aspetti da questo carteggio?
    Come credi che io sia? Ti aspetti una ragazza bella e spensierata? Una sfigata che si nasconde dietro ad un nick?

    Forse aveva esagerato. Forse si era scoperta lei. Ma poi pensò che la sua Titti87 avrebbe fatto proprio queste domande e le avrebbe fatte a raffica. Mentre lei, Viviana anzi Serena, ci avrebbe girato intorno per giorni.
    Ma Wim continuava a tenersi ben coperto e protetto.

    Wim
    Non giro nel forum, non faccio ricerche di questo tipo, sono innamorato di mia moglie, soddisfatto del matrimonio, non mi aspetto nulla dal carteggio, non mi aspetto né la ragazza bella e spensierata né la sfigata. Ti ho trovata per puro caso...

    Viviana lo incalzò.

    Titti87
    Non mi vuoi dire che forma ha avuto il "caso"? E come mi immagini?

    Wim
    Il caso ha la forma del caos... C'è stato un "perturbante" che mi ha condotto a quelle pagine, sai di quelle cose che in una architettura perfetta non riesci ad immaginare che possano accadere e che quando accadono turbano i sistemi organizzati? Beh, quel perturbante quel giorno ha agito e ha fatto sì di spingermi ad aprire la pagina "forum". Il resto è stato facile, il tuo argomento che avevi appena postato risultava tra gli ultimi e quindi in prima pagina, cosicché ho cliccato e letto.

    In quanto ad immaginarti non ho idea e tra l'altro l'esteriorità, l'avvenenza, conta molto solo quando interiormente si è vuoti. Non credo sia il tuo caso. Ma ora parlami di te....

    Che ipocrisia!!! Proprio da lui queste parole!
    Viviana si trovò così ad un bivio. Ributtare di là la palla (per rimanere in tema di giochi e partite), come peraltro continuava a fare lui, o rispondere portando la finzione ancora oltre? Poi pensò al suo personaggio, alla presentazione che aveva fatto di sé. Titti87 aveva scritto di se stessa di amare la poesia. Bene, si disse, diamo qualche punto di elevazione alla ragazzina.

    Titti87
    A Charm invests a face
    Imperfectly beheld -
    The Lady dare not lift her Veil
    For fear it be dispelled -

    But peers beyond her mesh -
    And wishes - and denies -
    Lest Interview - annul a want
    That Image - satisfies -


    [Un Fascino circonda un volto/Imperfettamente scorto/La Dama non osa alzare il Velo/Per paura che si disperda/Ma scruta al di là del tessuto/E desidera e si nega/Affinché il Parlare non annulli un desiderio/Che l'Immagine soddisfa. Emily Dickinson – The Complete Poems (Traduzione di G. Ierolli) nda]

    Lui rispose prontamente.


    Wim
    Emily Dickinson.

    Ma non aver paura di disperdere il velo...

    «Google è tuo amico!» si sorprese a dire ad alta voce Viviana. Si trovava nel lounge dell'uscita dodici dell'aeroporto ad aspettare l'aero che l'avrebbe portata a casa dell'ennesima trasferta, quando lesse la risposta di Wim. Un tizio di fronte a lei alzò gli occhi a guardarla e lei fece un sorriso imbarazzato. Google è tuo amico, ma tu non hai capito niente! Disse questa volta solo a se stessa, non è il velo che ha paura di disperdere, ma il fascino!
    In quel momento dall'altoparlante chiamarono il suo volo.
    Fu durante il viaggio che Viviana decise quale sarebbe stata la sua risposta. Il gioco era finito e magari Wim-Leonardo poteva non essere d'accordo, ma lei se ne considerava la vincitrice. Una vittoria amara, ma pur sempre una vittoria.

    Titti87
    citazione [Wim] - non aver paura di disperdere il velo...-

    Ventidue anni!
    Era un bel periodo. Io ero nel pieno della mia personale, modestissima bohème. Vivevo in un appartamento con altri tre studenti, un ragazzo e due ragazze.
    Ero caruccia a ventidue anni. Capello di un bel castano caldo, lungo alle spalle. Peso forma. Non una modella, forse, ma qualche foto carina di allora ce l'avrei.Qualche storia l'avevo già archiviata e con cicatrici nemmeno troppo profonde, a ben guardare.
    Ero anche andata vicina ad essere l'amante di un mio professore, che ironia!, ma sull'orlo del baratro ci eravamo guardati in faccia e ci eravamo chiesti “ma che stiamo facendo?” ognuno improvvisamente consapevole delle proprie responsabilità.
    Fu quando avevo ventidue anni che conobbi quello che sarebbe diventato mio marito.
    Allora ancora non lo sapevo, solo due anni dopo ci innamorammo e dopo altri due anni decidemmo di sposarci.
    A ventidue anni ero idealista e integralista, come lo sono tutti i ventiduenni. O forse come lo erano. Idealista forse lo sono ancora.
    A ventidue anni non sapevo cosa avrei fatto da grande. Studiavo (disordinatamente), lavoricchiavo e mi godevo la mia libertà. Mi sentivo padrona del mondo!
    Facevo volontariato e frequentavo ragazzi e ragazze idealisti ed integralisti come me. Fu lì che incontrai mio marito. Era il 1990.

    L'idea, caro Leo, era di giocare con te, non contro di te. Appena ci fossimo risentiti in chat o per email ti avrei detto "ho una sorpresa: vuoi sapere cosa dicono di te?" Io ero curiosa come una gatta.
    Ma in chat non ci siamo sentiti più e non hai più risposto alle mie mail. Sono rimasta in dubbio su cosa fare. Ero delusa, e arrabbiata con me stessa per averti mandato la foto ed essermi sottoposta a quest'umiliazione. Probabilmente comunque avrei mollato lì e la cosa sarebbe finita nel dimenticatoio.
    Ma non avevo previsto che avresti risposto a "Titti87".

    Non voglio tirarla oltre. Forse avrei potuto semplicemente non risponderti più e lasciarti nella convinzione che lì da qualche parte una timida ventiduenne sospirasse guardandoti alle sessioni d'esame. Ma sono sicura che anche se non sono io qualcuna ci sarà, quindi stai sereno e buona vita.

    Serena (di fatto) Viviana (di nome)

    PS: "l'esteriorità, l'avvenenza, conta molto solo quando interiormente si è vuoti." Sarebbe bello se fosse così, no?

    Arrivata a casa abbracciò suo marito e scoprì che le era mancato molto. Poi, a sera, gli raccontò il seguito della storia da dove l'aveva interrotta.
    Leonardo Genovese, docente di Storia e Critica del Cinema, non diede mai più notizie di sé.


    4
    (ELIMINATO, PER INFORMAZIONI RIVOLGERSI A .cloud. o a Capitan Golia)

    5

    L'ANTICA PROFEZIA MAYA DI ESTIQUATZEE

    «Estiquatzee!» esclamarono all’unisono i due neofiti dell’antica religione entrando nella sontuosa camera del gran sacerdote.
    Questi, tuttavia, non rispose; la gran pozza di sangue nella quale aveva immerso la faccia e la lama che gli spuntava fra le scapole glielo impedivano.
    «Dici che non sta bene?» chiese Queltelodicafaz preoccupato al compagno.
    «Credo sia morto, Queltelodicafaz » rispose Kaax Ut senza alcun sentimento(*).
    «Oh» commentò Queltelodicafaz prima di comprendere in pieno il significato di ciò che gli era stato detto. Oh che immediatamente dopo si tramutò in pianto inconsolabile con ululato d’accompagnamento.
    Kaax Ut non gli diede troppa importanza: era il terzo Estiquatzee che trovavano morto assassinato (e non sarebbe stato nemmeno l’ultimo, c’era da immaginarsi) e ogni volta Queltelodicafaz si era comportato nello stesso modo, pronunciando le stesse esatte parole.
    «Ma come, come può essere successo» ricominciò Queltelodicafaz a lamentarsi, lacerandosi le vesti e portando alla vista un corpo pallido e flaccido, da trauma post prandiale. «Quale, quale può essere la causa di simile tragedia?».
    «Indigestione, immagino» replicò Kaax Ut con il medesimo tono piatto di poco prima.
    Queltelodicafaz si alzò dal pavimento e si pulì il moccio in quella che prima era stata la manica della veste neofitale e ora erano i peli biondicci del suo braccio; il trucco abbondante era tutto colato sulle guance e sul mento, un’immagine patetica.
    «Ecco» commentò Queltelodicafaz indignato «glielo avevo detto che la carne di coguaro la sera è pesante.»
    Kaax Ut considerò che chiunque avesse studiato in futuro la loro civiltà, avrebbe preso di sicuro delle grosse cantonate, con tutte quelle belle teorie matematiche e astronomiche.
    A quel punto si sarebbe dovuto chiamare il più alto in grado dei sacerdoti, successore designato ancorché neo assassino; invece a Kaax Ut venne l’idea, la prima altruista della sua vita egoista, che infatti l’avrebbe portato alla rovina.
    Lui avrebbe liberato i Maya dalla schiavitù dei loro dei e di chi se ne faceva portavoce!
    Niente più sacrifici umani, niente più ricchezza di pochi a discapito di molti, niente più ignoranza o manipolazione, niente più teorie astronomiche spacciate per rivelazioni divine e frutto invece di un unico genio ateo che per questo era da tempo stato digerito dal coguaro preferito dell’Estiquatzee allora al potere!
    Conoscenza e libertà avrebbe offerto al suo popolo!
    Abbagliato da cotanto altruismo, Kaax Ut tornò di colpo alla realtà visiva contraccambiando lo sguardo da pesce lesso del compagno, l’unico ostacolo contingente al suo piano.
    Niente di più semplice che scavalcarlo; Kaax Ut si gettò sul pavimento, badando bene di non finire nel disgustoso liquido appiccicaticcio del sangue del defunto Estiquatzee, e, schiumando abbondantemente dalla bocca, si finse posseduto dallo spirito del defunto:
    «Epigoni, miei epigoni!» gnaulò fra la bava.
    Queltelodicafaz si guardò intorno, ma di Epigoni non trovò traccia.
    «Tu, sì, tu che mi stai guardando!» precisò allora Kaax Ut. «Io sono lo spirito di Estiquatzee e nel corpo di questo neofita voglio parlare al popolo!».
    Queltelodicafaz fissava il corpo del compagno che si contorceva a terra; la sua mandibola toccava già il torace. C’era cascato come un… un Queltelodicafaz.
    Kaax Ut si sollevò da terra; il suo viso era una maschera spiritata, molto convincente.
    «Aiutami a indossare la veste cerimoniale, rivelerò al popolo la profezia!» concluse con voce oltretombale.
    Percepì Queltelodicafaz trattenere rumorosamente il fiato.
    La profezia!
    La profezia che avrebbe svelato al popolo il suo destino finale; un rotolo di pergamena in bianco, adoperato a monito e minaccia di un futuro orrendo. Ma anche no, pensò Kaax Ut.
    «Presto, la veste!» ordinò con una certa urgenza. Non rimaneva troppo tempo prima che qualcun altro rinvenisse il corpo dell’ultimo Estiquatzee; nel frattempo la veste sacerdotale, uno scafandro di legno e pietre dentro il quale poteva pure non esserci nessuno che gli spettatori non se ne sarebbero accorti, avrebbe nascosto la sua vera identità agli altri religiosi.
    «Ora il corno!» aggiunse quindi Kaax Ut e Queltelodicafaz si precipitò a suonare l’enorme corno che dalla cima della piramide avrebbe adunato la popolazione (erano ancora all’età della pietra, la civiltà precolombiana più evoluta, ma ancora all’età della pietra).
    Nel giro di pochi minuti la folla attendeva in apprensione il gran sacerdote ai piedi della piramide.
    Con un robusto spintone Queltelodicafaz fece scivolare lo scafandro sulle apposite rotelle fuori dalla stanza sacerdotale alla sommità della piramide e il sole luccicò sulle pietre levigate a specchio.
    «Popolo!» esclamò Kaax Ut alias Estiquatzee.
    La folla esultò.
    «Il dieci caunac tzolkin, otto tzec haab del lungo computo» esordì.
    La folla si guardò intorno.
    «Oggi» precisò Kaax Ut.
    Ahhhhh, fece la folla all’unisono prima di esultare di nuovo.
    «Renderò nota LA PROFEZIA!».
    La folla trattenne rumorosamente il fiato e sbiancò collettivamente.
    Kaax Ut prese la pergamena vuota e la srotolò.
    «Popolo, dal dieci caunac tzolkin, otto tzec haab del lungo computo… cioè da oggi», ahhhhh, «gli dei hanno abbandonato le nostre terre».
    Un silenzio di tomba cadde sulla folla. Nello stesso momento, Motinkulz, vice gran sacerdote, trovava il corpo di Estiquatzee.
    «Non ci hanno abbandonato a noi stessi, però, ci hanno lasciato la parola scritta, la matematica, il nostro ingegno e il nostro intelletto, terreni fertili e acque pescose, materiali preziosi, tutto ciò che ci consentirà di prosperare, e ci hanno reso liberi. Niente più sacrifici umani, niente più sacerdoti ormai inutili, niente più regole ingiuste, ma ricchezza equamente distribuita, insomma… LA LIBERTA’!».
    Non leggeva più, Kaax Ut, parlava a braccio, infervorato, entusiasta della nuova possibilità che stava donando alla sua gente.
    Motinkulz stava invece chiamando le guardie sacerdotali con tutte le loro belle armi di sterminio al completo.
    La folla guardava alternativamente la figura del gran sacerdote alla sommità della piramide e la faccia stupefatta del proprio vicino; non era sicura di aver capito bene.
    Dal fondo si levò una voce:
    «Estiquatzee?».
    «Sì.»
    «Ma la profezia non era qualcosa in proposito alla fine del mondo il 21 dicembre 2012 secondo un calendario a noi ignoto?».
    «No.»
    «Estiquatzee?». Un’altra voce.
    «Sì.»
    «E adesso che dovremmo fare?».
    «Mah, direi che sarebbe il caso che tornaste alle vostre attività, ma come uomini liberi; nessuna guardia sacerdotale si approfitterà più della vostra debolezza. Non dovrete più rendere omaggio ad alcun dio.»
    «Estiquatzee?».
    «Sì.»
    «Ma a noi andava bene rendere omaggio agli dei.»
    «Anche essere sacrificati per loro?».
    «Soprattutto quando toccava a qualcun altro.»
    «E pagare tasse spropositate?».
    «Così gli dei ci proteggono, o almeno lo fanno i loro scagnoz… sacerdoti.»
    Le guardie sacerdotali riuscivano nel frattempo a scardinare la porta di pietra che portava alla somma terrazza.
    Kaax Ut osservava la folla sbigottito e non se ne accorse.
    «Insomma voi non volete…» protestò debolmente.
    «No» risposero parecchie voci insieme.
    «E allora?» domandò Kaax Ut.
    La folla temporeggiò seguendo le guardie sacerdotali circondare l’ignaro Estiquatzee parlante.
    «A morte il gran scerdote» esclamò infine la solita anonima voce.
    «A morte» le fece eco una seconda e una terza e una quarta, finché non fu un unico boato.
    Con una certa eleganza le guardie afferrarono in più punti il contenuto dello scafandro, ove questo presentava varchi; si udì un inquietante scricchiolio interno. Un rivoletto di sangue che colò giù dai gradoni della piramide sancì la fine dell’utopia di Kaax Ut.
    La folla esultò, poi, spontaneamente, cominciò a invocare il nuovo gran sacerdote.
    «E-sti-qua-tzee, E-sti-qua-tzee, E-sti-qua-tzee.»
    «Estiquatzee» ripeté bovinamente Queltelodicafaz mentre gli passava davanti lo scafandro con dentro il compagno defunto.
    Dopotutto, alla possessione spiritica non aveva mai creduto.

    [(*)Per diventare neofiti l’acume non era un requisito fondamentale, anzi. Il test di selezione premiava coloro che conseguivano i punteggi più bassi in ogni materia. (Se tuttavia, inconsapevolmente, azzeccavi quel paio di quesiti truculenti infilati a tradimento in mezzo agli altri, ti facevano guardia. O boia sacerdotale, addetto ai sacrifici umani per una delle magnanime divinità maya). Ciò per evitare la presenza fra i discepoli di disturbatori troppo scaltri che potessero aspirare ad altro che a vitto e alloggio garantito fino alla morte, spesso non troppo lontana. Disturbatori la cui scaltrezza, d’altra parte, era in alcuni casi tale da far aggirare il problema con facilità, nella fattispecie fingendosi ritardati abbastanza da sbagliare tutte le domande; e questo Kaax Ut, nato povero e estremamente indolente, aveva fatto, aspirando a quanto per lui era già un ottimo risultato (vitto e alloggio gratis per sempre, per quanto breve il sempre fosse).]



    6


    METTI LA CANOTTIERA!

    Da piccolo ero piuttosto magro, gracile. A sette anni avevo perso, praticamente assieme, i denti davanti: tutti gli incisivi. La finestrella che si era formata era “buffa”, secondo i miei genitori. “Ridicola”, dicevano gli amici. A dire il vero questo di perdere i denti era un problema anche loro, ma io per un periodo più o meno lungo, o almeno così mi è sembrato, sono stato completamente senza quei quattro piccoletti. Finestra aperta.
    Un giorno Luca, il mio migliore amico, mi mostrò la foto di un pugile. Era seduto nell'angolo del ring, fra una ripresa e l'altra, e aveva in bocca la stessa apertura.
    - Hanno il paradenti, ma quando si riposano spesso lo tolgono. E poi, fuori dagli incontri, mettono una dentiera...
    Fantasticai su questa idea: mi immaginavo coi quattro denti tutti d'oro, e questo rappresentava avere la forza di un pugile!
    Anch'io potevo essere forte come un pugile. O.K., magari da grande.
    Se mi specchiavo da nudo sul petto non vedevo un muscolo. Non uno. Niente peli, niente cicatrici, nemmeno i miei bottoncini facevano una qualche differenza: erano quasi invisibili.
    Allora gonfiavo le braccia e... lì c'era qualcosa, niente di veramente significativo ma, almeno erano muscoli. Io me li immaginavo enormi, due palle gonfie come aveva Braccio di Ferro. E sotto c'erano le stesse braccine smilze.

    A quel tempo papà e mamma mi dicevano spesso: - Metti la canottiera.
    Io sorridevo, fra me e me, e mi canticchiavo la frase come nella canzone “Metti la canottiera. No!”.
    Però la mettevo e mi immaginavo grande e grosso, con un torace enorme e i muscoli tutti disegnati, come quelli che fanno body building. Ogni tanto allargavo leggermente la canottiera e guardavo giù nel petto, per vedere se mi erano spuntati i primi peli. “Niente”, non arrivavano mai!

    In quegli anni spesso uscivo, andavo in giro con Luca. Lui mi portava per tutto il paese, a esplorare posti strani. Un paese, che contava sì e no 6.000 abitanti. Erano giri rischiosi, per ragazzi coraggiosi.
    Un giorno mi disse: - Roby. Andiamo verso la masseria grande, lì vicino c'è un vecchio deposito.
    - Cosa c'è dentro?
    - Niente, credo, è un deposito abbandonato, ma Gianni una volta ci ha trovato delle riviste con le donne nude.
    - E allora? Cosa c'è di interessante?
    Luca mi guardava con un sorrisetto, come dire: se non lo capisci da solo non sarò certo io a spiegartelo.
    Naturalmente la sua proposta era una sfida di coraggio e io non potevo tirarmi indietro.
    L'area del fabbricato era recintata. Per quasi tutto il fronte il muro era molto alto e coi cocci di vetro sopra. Non era un problema passarci su, in qualche modo, per esempio poggiandoci sopra qualche strato di cartone, ma in quel modo ci avrebbero potuto vedere facilmente. Sul retro non sapevamo bene cosa potesse esserci, sapevamo che c'era una discesa dietro il deposito (il che significava una salita se volevi arrivarci da lì), poi le vigne e chissà cos'altro... e comunque sarebbe stato un giro piuttosto lungo. Di lato c'erano due altre proprietà, una di queste con una cancellata piuttosto bassa. E' da quella parte che entrammo.

    Arrivammo sul fianco del fabbricato, c'era una finestra rotta e si poteva entrare facilmente. Io e Luca eravamo davvero un po' incoscienti, sapevamo che stavamo facendo una cosa illegale, ma a nostra discolpa posso dire che proprio non ci aspettavamo quello che ci siamo trovati davanti.
    - “Toro Seduto”! Roby c'è Toro Seduto lì dentro, con altre... tre persone. Quattro in tutto.
    “Toro Seduto” era un noto delinquente, uno che tutti noi ragazzini conoscevamo di vista o per sentito dire. Si diceva avesse frequentato tutti i porti del mediterraneo (e forse anche degli altri mari), era un bestione enorme. Biondo, coi capelli lunghi fin sotto le spalle. Era come certi lottatori di wrestling, non so se avete presente Hulk Hogan, un tipo del genere. Era noto perché aveva il torso coperto dai tatuaggi, e fra questi spiccava in centro, sul petto, il volto di un capo indiano, con tutto il contorno di piume. E' da questo che veniva il suo soprannome, Toro Seduto, ma forse lui non era contento di essere chiamato così. Eravamo convinti che avesse ucciso delle persone; tutti lo dicevano, in paese.
    Tra la stanza laterale in cui eravamo entrati e un locale interno c'era una porta socchiusa e parzialmente rotta. Da dove eravamo noi si vedeva che dentro era molto ampio, parzialmente occupato da scatole, cianfrusaglie varie e pezzi di legno, probabilmente mobili rotti, ed anche vecchi elettrodomestici e cose del genere. Nel centro c'erano un uomo legato a una sedia, col volto irriconoscibile, coperto da lividi e ferite. Altri due tizi erano lì davanti, seduti. Sembravano osservatori, erano sicuramente complici di Toro Seduto. Questi era in piedi e dominava la scena: grande e grosso com'era faceva sembrare piccolissimo il tipo legato. Aveva in faccia un'espressione che trasudava violenza. Faceva delle domande e gli dava dei pugni sul viso. Non si capiva molto di quello che dicevano, perché le voci erano stridule e c'era un forte rimbombo. Parlavano di “roba”, di tradimento e di soldi, non riuscivo a seguire la logica del discorso ma nel complesso si poteva intuire di cosa parlassero. Ad ogni ceffone o pugno seguiva una specie di urlo soffocato. L'uomo legato se la stava passando molto, molto male.
    - Dai, Roby, andiamo. Ce ne dobbiamo andare.
    Mi sussurrò Luca in un orecchio, la sua voce era tremolante.
    - Voglio vedere cosa succede.
    - Adesso lo uccidono.
    Lo so, sembra davvero surreale questo dialogo, ma vi assicuro che ci siamo detti quelle parole lì. Eravamo dei ragazzini.
    In quel momento Toro Seduto si girò nella nostra direzione. Era distante ma mi sembrava che, per un attimo, mi avesse fissato dritto negli occhi.

    Cominciammo a correre immediatamente, pazzi di paura.
    Correre, correre, correre!! Non potevamo pensare ad altro.
    Da dentro si udì uno sparo. Avevano freddato l'uomo. Luca era velocissimo e, non so neanche perché, non era tornato al punto da cui eravamo entrati, ma correva a rotta di collo giù per la discesa.
    Dietro di noi il rumore dei tre assassini che uscivano e probabilmente si accingevano ad inseguirci.
    Poi un urlo: “Ehi!”. Non potei fare a meno di voltare la faccia. Tutti e tre i tipi erano fuori, con la pistola in pugno, puntata verso di noi. Uno ci correva dietro, gli altri due erano fermi. Toro Seduto aveva la pistola in mano e la stava puntando dritto dritto verso di me tanto che se ne vedeva giusto il cerchiolino della canna e, subito dietro, il contorno della mano.
    Esplodevano colpi nella nostra direzione e questi ci fischiavano accanto alle teste, per fortuna senza colpirci.
    Continuai a correre. Seguivo Luca sperando che sapesse o intuisse dove andare. Eravamo velocissimi e anche quello che ci stava correndo dietro dovette rinunciare e fermarsi. Intanto eravamo arrivati al vigneto alle spalle del fabbricato, era abbastanza grande e, alla fine la discesa si trasformava in una vera e propria scarpata. Sotto c'era una strada di campagna. Arrivammo in basso con un salto in corsa. Vivi e illesi. Con gran rumore più avanti stava allontanandosi un mezzo agricolo che trasportava fieno. Saltammo su e ci infilammo sotto il fieno, non eravamo più visibili. Nessuno ci aveva seguito fin là. Sicuramente erano tornati dentro per occultare il cadavere.

    Lo so: questa parte non è credibile. Ma è così che, in seguito, la raccontavo a tutti. Romanzata così è una figata, vero?
    La verità, invece, è molto più banale. Ma con voi voglio essere sincero.
    Toro Seduto avrà sentito un rumore, forse noi che parlavamo. Si è voltato e mi ha visto. Poi c'è stata la corsa pazza giù per i campi. Ma nessuno sparo, nessun proiettile, anzi proprio nessuno a seguirci. Arrivati di sotto, e terrorizzati com'eravamo, abbiamo preso la prima strada che abbiamo trovato, nella direzione che puntava fuori paese. Abbiamo girovagato per un po' nelle campagne e fatto un ampio cerchio fra campi e strade sterrate, sperando così di essere in salvo. Due ore dopo, quando siamo rientrati in paese, avevamo ancora il cuore che ci batteva all'impazzata.
    Ci sembrava che avremmo incontrato Toro Seduto e gli altri due da un momento all'altro, ma non fu così: arrivammo a casa senza ulteriori avventure.
    Sicuramente si vedeva che era successo qualcosa, ma avevamo studiato una buona scusa: raccontammo, ciascuno alla propria famiglia, che avevamo preso della frutta da un albero e che il contadino ci aveva sorpresi ed inseguiti.
    - A un certo punto a Luca ha tirato un bastone in testa.
    Mio papà mi fece un cazziatone incredibile: “non si ruba”, “non si entra a casa d'altri” (come c'era andato vicino!), e cose del genere.
    Io ero abbastanza sconvolto, ma non mi sembrava il caso di raccontare quello che avevamo visto. Avevamo fatto una cosa pericolosa e ne sentivamo la responsabilità. E poi, ammesso veramente che due bambini, come eravamo, avessero il coraggio di accusare, senza prove sufficienti, un gruppo di delinquenti come quelli che avevamo visto, non avremmo nemmeno saputo come fare.
    Successivamente si diffuse in paese la notizia che c'era stato un omicidio. Toro Seduto era ufficialmente ricercato e “le maglie della giustizia si stavano inesorabilmente stringendo attorno al malvivente”. Così diceva Alberto, mio cugino.
    Io e Luca pensammo che l'uomo ucciso era proprio quello che avevamo visto, legato alla sedia.
    - Lo stavano torturando per farlo parlare.
    - Doveva confessare dove aveva nascosto il malloppo.
    Così ci dicevamo e anche Luca, come me, aveva una visione della realtà abbondantemente influenzata dai film di avventura che guardavamo al pomeriggio in televisione.

    Una cosa incredibile però avvenne davvero, pochi mesi dopo.
    Su iniziativa di mio padre tutta la famiglia sarebbe andata in vacanza in Spagna, a Madrid.
    Il viaggio sarebbe stato in aereo. Mentre eravamo in partenza all'aeroporto io ero abbastanza emozionato e, mentre i miei sbrigavano le formalità, continuavo a girarmi e a guardami intorno, dappertutto. Non c'ero mai andato in aereo.
    Dopo il check-in ci siamo messi in coda alle barriere, dove perquisiscono i passeggeri ed esaminano i bagagli. Io, spinto dalle mie curiosità, mi stavo muovendo lì attorno quando, ormai prossimi alla verifica da parte degli agenti della sicurezza, sono finito praticamente addosso a un signore. Ben vestito, capelli corti, barba curata. Aveva la valigetta in mano e sarebbe sembrato in tutto e per tutto un tranquillo uomo d'affari.
    Ma.
    Poiché gli avevo pestato un piede ha fatto una smorfia, fissandomi dritto negli occhi, con un'espressione che non potevo non riconoscere: era lui, era proprio lui, Toro Seduto.

    Il lampo nei miei occhi diceva: “so chi sei”. Mi aveva riconosciuto a sua volta?
    Non so, non ho mai potuto appurarlo, ma la sensazione che ho è che comunque non sarebbe stato diverso. Ognuno di noi due aveva capito in qualche modo che anche l'altro aveva capito.
    Ed eravamo ad uno stallo.
    Cosa potevo fare? Urlare? E chi mi avrebbe creduto?
    E lui, altrettanto, era in un momento difficile. Fingere indifferenza? Negare eventuali accuse? Era lì davanti alla Security e non poteva permettersi azioni avventate. I suoi occhi fiammeggiavano.
    Ma fu un attimo, poi si voltò. Con voce calma disse: - Ragazzino, fai attenzione. Mi hai pestato un piede.
    Con noncuranza si stava avviando verso le barriere. Aveva trovato la soluzione giusta.
    Fu un momento di rabbia a farmi reagire. Non volevo darmi per vinto e mi parai davanti a lui, come un piccolo Davide contro Golia.
    E dissi: - E' Toro Seduto, un assassino. Arrestatelo!
    Le guardie mi guardavano increduli e mio papà, poco più dietro, si rivolse a me dicendo: - Roberto, adesso basta! Torna qui e smettila di dare fastidio.
    E poi, rivolgendosi agli altri: - Scusate! Il ragazzo ha una fervida fantasia e non potete immaginare quante volte...
    Ma io avevo acchiappato la camicia dell'uomo che, incautamente, portava la giacca sbottonata. E con tutta la forza di cui ero capace l'ho tirata, aprendola in centro. Niente canottiera: sul petto aveva l'inconfondibile tatuaggio con Toro Seduto. Era la prova certa che non mi sbagliavo.
    I momenti successivi li ricordo come una specie di flashback per immagini e senza audio: le guardie che gli puntano le pistole addosso, lui che alza le mani, mio padre incredulo mi prende fra le sue braccia, le lacrime di mamma. E poi ancora le interviste, raccontare mille volte ad amici e conoscenti la stessa storia. Forse mi potete scusare se qualche volta l'ho un po' “condita”.
    E ancora adesso, ogni tanto, mi capita di sorridere e canticchiare tra me e me quella canzoncina: “Metti la canottiera. No!”.


    7

    LA PROFEZIA DEL GRANDE CAPO ESTIQUAZZI

    „Ho detto.“
    E con queste parole il Grande Capo si chiuse nel silenzio. Si avvolse stretto nella pelle che portava sulle spalle per difendersi dal grande freddo, chinò la testa e rimase pensieroso a fissare le fiamme.
    I guerrieri si guardavano l’un l’altro. Un volto era più spaventato dell’altro. Nella grande tenda regnava un silenzio assordante, rotto solo dal russare gentile dei cani della tribù, perfino il forte vento si era fermato.
    Nessuno si mosse per un po’, troppo spaventati dalle parole del Grande Capo per osare anche solo respirare.
    Poi, all’improvviso, una ventata sollevò la pelle che copriva l’ingresso della tenda, fece entrare polvere e foglie, fece muovere le braci e danzare le fiamme.
    Un respiro più forte, un cambiamento infinitesimale di posizione e il silenzio venne rotto.
    “…quindi…rimane solo…la via delle stelle…”
    Dieci volti si girarono per fissare il giovane guerriero. Aveva osato mettere in parole quello che loro non riuscivano nemmeno ad immaginare. La via delle stelle…mai, a memoria di uomo…la via delle stelle, quella strada non strada che saliva scendendo, quella strada su cui solo i più coraggiosi si erano avventurati, solo qualche Grande Guerriero era arrivato fino alla nebbia e non era mai più tornato. L’unica strada, forse, per andarsene.
    Il grande capo attese un attimo, chiuse gli occhi come per vedere meglio quello che non c’era e poi parlò:
    “Si, solo la via delle stelle”.
    Respiri trattenuti, gole strette.
    “Non è ancora chiusa, ma lo sarà presto. Dobbiamo trovare il modo di passare prima che anche questa via ci sia proibita e che nella valle non resti niente per noi.”
    “Ma come…come possiamo passare tutti? Le donne, i bambini, i vecchi…non è la stagione per la via delle stelle, bisogna aspettare la notte della Luna con le braccia…non ce la faremo mai!”
    “Taci! – la voce del guerriero grande risuonò nella tenda – Taci! Ce la faremo. Ce la dobbiamo fare o fare in modo che la nostra gente ce la faccia.”
    Il grande capo sorrise, mosse lentamente la testa e disse piano “Andate ora, andate e non parlate con nessuno”.

    Lentamente, uno dopo l’altro, i guerrieri si alzarono. Volti chiusi, tesi, preoccupati. Piegarono lentamente la testa per salutare il Grande Capo. Si girarono, uscirono dalla tenda insieme ai cani. Fuori dalla tenda il vento ululava gelido, portando odori e promesse, minacce e sapori. Si guardarono attoniti per l’ultima volta, poi tornarono alle capanne con un peso di più sulle spalle e un senso di vuoto nel petto, camminando lenti come vecchi, rischiando un’occhiata di sbieco al monte…

    La luna, silenziosa e immobile nel cielo ventoso, aspettava.



    8

    LA CANOTTIERA (della nonna, ndr)

    C'è chi nasce con la camicia, lei invece era nata con la canottiera.
    Non a caso l'episodio più raccontato sulla sua nascita era quello in cui, alla metà di agosto, la nonna l'aveva salvata da congelamento sicuro combattendo con una delle puericultrici del nido e facendole indossare il camicino della fortuna di pura seta, e sopra una canottiera di filato prezioso, lana e seta, quello che ci vuole per i neonati. Fatta a mano, la canottiera, dalla nonna stessa, dopo che aveva scovato alcuni gomitoli del prezioso filo in una decrepita merceria poi, purtroppo, chiusa per sempre.
    Con questo esordio era entrata in una vita all'insegna della protezione, destino forse scontato in una famiglia con un fratello molto più grande, una madre molto svagata e un padre che non era un argomento di conversazione molto gradito. Lei non ne aveva alcun ricordo, e la nonna e le zie le avevano insegnato a dire, se le chiedevano del padre, che era 'in missione'. Che questo avesse poco a che fare con la vita religiosa l'aveva capito anche lei, e visto che giocare con le parole era una delle poche cose che poteva fare senza pericolo di prendere freddo o altro, aveva arricchito la cosa ed era in grado di spiegare che suo padre era in missione spaziale, su una stazione orbitante intorno a Saturno. Né aveva capito perché il tema in cui l'aveva scritto le avesse procurato un brutto voto - di errori non ne faceva - o perché la suora avesse convocato sua madre a scuola per un Colloquio a Porte Chiuse, al quale a casa era seguita una sgridata eccezionale, senza accesso a nonne o zie.
    La mamma, oltre che svagata, era fuori tutto il giorno per lavoro, e cura, cautele e attenzioni erano quindi delegate alla nonna e a due zie nubili, una delle quali viveva in casa con loro. L'altra arrivava quasi tutti i giorni per il caffè della mattina e se ne andava poco prima di cena, in quel grande appartamento sempre semibuio, pieno di vecchi mobili pesanti, tende tirate e pavimenti lucidati a cera sui quali era proibito però scivolare.
    Erano proibite molte altre cose, forse troppe, ma lei, educata ad essere mite e remissiva, non se ne rendeva conto. Mangiare fuori pasto, le caramelle dure, a rischio di soffocamento come quella bambina che conosceva la nonna (la nonna conosceva infiniti bambini le cui cattive abitudini avevano avuto conseguenze drammatiche, e non smetteva mai di raccontarlo, a perenne monito), prendere freddo, prendere caldo, bere a stomaco vuoto, bere dopo aver mangiato gli gnocchi, correre e sudare, camminare scalzi sul pavimento, fare il bagno dopo mangiato, uscire senza sciarpa sulla bocca in inverno o senza cappello in testa in estate, uscire senza motivo, e così via. E ovviamente, cosa fondamentale non togliere MAI la canottiera. Lei era ancora piccola quando suo fratello era partito per il servizio militare, e ricordava un'angosciante telefonata in cui la nonna gli aveva estorto che no, sotto la divisa la canottiera non si portava. Ma come è possibile? Col freddo che fa in Friuli, ma sei matto! Ma nonna, non c'è proprio, non è prevista dal regolamento. Ossignur, ma come si fa, scrivo io al generale, al colonnello o al ministro della difesa! NONNA, per favore, sto bene, lascia perdere, la maglietta a mezze maniche la usiamo. Ma la canottiera serve di più, protegge, assorbe il sudore! E' almeno felpata, la maglietta, vero?
    Quando, con un rarissimo, inebriante viaggio, erano stati a vedere il giuramento del fratello, alto e bellissimo nella sua divisa, la nonna aveva preteso che si slacciasse la camicia al ristorante per vedere cosa aveva sotto, e gli aveva dato un pacchetto contenete canottiere di tutti i pesi.
    Perché la canottiera è più difficile di quanto si pensi, si diceva sempre lei, e io sono un'esperta ormai. Da novembre, manica lunga e lana, quella che pizzica implacabilmente, con l'aggiunta di una panciera al minimo doloretto. Da marzo, lana a mezza manica, poi il Graduale Adattamento, come diceva sempre la nonna, con tanto di maiuscole: Aprile Non Ti Scoprire, dopo Pasqua si può passare alla mezza manica di cotone felpato. Maggio Va Adagio, verso il venti del mese si può azzardare la mezza manica di cotone semplice, ma NON filo di Scozia, che è freddo e troppo leggero. Giugno, finalmente, cotone a spalla larga. Dopo San Piero puoi metterti leggero, improvvisava sempre una delle zie, ed era il felice momento della canottiera di cotone con gli spallini, così carina, con il bordino di pizzo, che faceva sempre piacere indossarla, perché sapeva di vacanze.
    L'unica vacanza che conosceva era quella al mare, con la nonna, senza zie, in un pensionato di suore gestito da una cugina della nonna, una suora inquietante, alta e curva, con le spalle strette e i fianchi larghi, e un sorriso che a lei sembrava da cavallo, con labbra rosse come il sangue in una faccia bianca. Non si era mai posta il problema se la mamma andasse in vacanza altrove, senza di lei, o quando, perché le piaceva il ritmo diverso di quelle tre settimane comunque protette: il giardino con le palme, gli alberi di pompelmo e di mandarini cinesi, il rumore sereno del mare, la mattina, sulla spiaggia di sassi dove la nonna la portava a fare la 'passeggiata', il grande premio di un gelato nel pomeriggio, appena guastato dalla proibizione di fare il bagno dopo, la vestaglietta a righe che la nonna indossava, sopra la canottiera, invece del costume da bagno, il profumo come di legno salato delle cabine, la suora giovane e snella che faceva lunghe nuotate al largo e scendeva in spiaggia in costume olimpionico e cuffia da bagno. Ma c'erano anche i lati negativi: la noia di un lungo soggiorno senza altri bambini, il caldo soffocante nel refettorio, con le finestre chiuse per evitare correnti d'aria, e la minestra bollente servita ogni sera, la cameretta luminosa ma spoglia che le ospiti dovevano pulire ogni mattina, la messa serale in una cappelletta ancora più calda delle altre sale.
    Questo a luglio, il mese di agosto era poi una lunga, calda e bollente inedia passata nell'appartamento, senza altre gite o variazioni del ritmo quotidiano perché in vacanza erano già state, con l'unica consolazione della lettura, dato che la nonna aveva una vasta libreria cui lei poteva accedere senza proibizioni, e del pensiero col primo di settembre sarebbe tornata alla canottiera a spallini larghi, e che poi sarebbe ricominciata la scuola. La scuola era il suo unico contatto con il mondo esterno, anche se sempre mediato dai severi canoni della nonna. Di scuola materna, con due zie e una nonna a tempo pieno, non si era mai parlato, e aveva iniziato le elementari in una scuola scelta dalla mamma, scuola che a lei piaceva moltissimo, piena com'era di bambini completamente diversi da lei, ma interessanti. Ma presto, dopo pochi mesi, c'era stato il Primo Incidente della Canottiera, tanto per cambiare: la maestra aveva scritto sul diario che la bambina era troppo coperta, che la maglia di lana a manica lunga non andava bene per le lezioni di educazione fisica. La nonna era andata su tutte le furie, scrivendo in risposta che competeva a lei stabilire come vestire la nipote. La nonna era una donna formidabile, ma la maestra non era da meno, e lei in segreto parteggiava per la sua insegnante. Ma mai era accaduto che la nonna cedesse sui suoi principi, e così, dopo un Colloquio a Porte Chiuse con la maestra, e un altro a casa tra la mamma e la nonna, lei era stata trasferita a scuola dalle suore, le stesse dell'ordine che gestiva il pensionato al mare. Qui la canottiera era data per scontata, e si aggiungeva il grembiule azzurro con il colletto bianco ad aumentare le costrizioni, ma lei, su questo, non aveva voce in capitolo.

    Quando lei aveva dieci anni, lei e la nonna erano rimaste sole nel grande appartamento, ed era successo quasi senza che lei se ne accorgesse, come se fosse naturale. Il fratello, dopo il servizio militare, aveva frequentato l'università in un altra città, e adesso viveva e lavorava in un altro Paese. Una delle zie era morta 'di un brutto male che andava molto veloce', aveva detto in modo enigmatico la nonna; lei sapeva benissimo qual era la parola precisa per quella malattia, ma non era riuscita a scoprire nemmeno quale parte del corpo aveva colpito. La nonna ne era rimasta scossa, anche se non lo dava a vedere, perché si era comprata una canottiera nuova, con il bordo di pizzo, per andare da un medico per un controllo. L'altra zia nubile 'non c'era più con la testa' secondo la nonna, e anche qui lei sapeva la parola, ma non era gradito che la usasse. Dopo un breve, strano periodo di comportamento assurdo, compresa la volta che la zia era arrivata per il caffè del mattino indossando solo mutande e canottiera sotto il cappotto, ed era gennaio, era stata trasferita in un pensionato di suore, non quello al mare ma uno al lago, abbastanza vicino a casa per andarla a trovare la domenica, in visite noiosissime che rattristavano nonna e nipote, perché la zia non le riconosceva più, e che erano state rapidamente sospese. La mamma si era trasferita in un'altra città sempre per lavoro, telefonava ogni sera e veniva a pranzo ogni domenica, pranzi micidiali in cui il menu era sempre risotto, carne lessa con il purè e crème caramelle fatta dalla nonna, che la guardava e sospirava, e solo lei parlava del più e del meno, finché non le dicevano di stare zitta. Era un sollievo quando la mamma ripartiva, in un certo senso, e ancora di più sapere, come aveva imparato da Pollyanna, che per altri sette giorni non sarebbe stata domenica, per fortuna.

    Nonostante tutto, nonostante tutte le cautele e precauzioni, aveva fatto molte esperienze, anche se sempre entro i limiti imposti dalla nonna. Il corso di nuoto? Va bene, ma solo se ti tagli i capelli corti, in modo da poterli asciugare bene e in fretta, e zac, via le trecce che anche alla nonna, lo sapeva, erano sempre piaciute. Il campo scuola con l'oratorio? No, ma se vuoi puoi andare a quello delle suore: poche bambine selezionate, una suora dagli occhi d'aquila, una settimana nella foresteria di un santuario a picco sul lago, lo stesso dell'istituto dove chissà se c'era ancora la zia, lunghe camminate nei boschi, il rosario recitato la sera sulla terrazza, guardando il tramonto. La scuola di danza? Certo, due volte alla settimana dopo la scuola, senza nemmeno uscire. Le piaceva tantissimo, e non vedeva l'ora del tutù e del saggio finale. Ma c'era stato l'increscioso Secondo Incidente della Canottiera: il saggio era in giugno, ancora nella fase a spallini larghi del Graduale Adattamento, e la canottiera sotto il tutù si vedeva. La maestra era stata categorica: niente canottiera sotto, o niente saggio. La nonna era stata altrettanto categorica: allora niente saggio. Lei aveva pianto per due giorni per puntiglio infantile, ma sapeva per esperienza che era del tutto inutile, non solo la nonna l'aveva ignorata, ma l'aveva anche costretta ad assistere al saggio tra gli spettatori, visto che aveva già comprato il biglietto. La vacanza studio? Va bene, la organizzano le suore. Lei ormai le vedeva come vicenonne attentissime, abili in ogni campo dello scibile umano, in grado di far marciare il loro mondo, e forse non solo quello, con dolcezza e fermezza. E così, a dodici anni, si era ritrovata in un convento perso nella piovosa campagna inglese, con piccole suore dalla pelle scura e l'accento ostico che le avevano insegnato che canottiera si dice 'underwear', ma lei indossava la maglietta a maniche corte, perché andava troppo a nord, anche se era luglio, per indossare la canottiera con gli spallini. Per la prima volta quell'anno la nonna era andata da sola al mare, e lei ne aveva provato un indicibile sollievo.
    Vennero i tredici anni, la terza media e la necessità di scegliere la scuola superiore. Lei già si vedeva in un altro istituto di suore, con lunghi corridoi verdini, freddi in inverno e freschi in estate, il grembiule di un'altra foggia, una suora attentissima in portineria e solo femmine come compagne, e la sola idea la rattristava. E invece, con sua enorme sorpresa, la madre superiora convocò lei e la nonna, e disse a quest'ultima che l'unica scelta possibile, con la padronanza della lingua che lei aveva, e la sua capacità di usare le parole e il gusto di farlo, era il liceo classico, unica scuola che non c'era nella loro piccola città. E aggiunse, sotto lo sguardo allibito ella nonna, che era ora che andasse fuori nel mondo, e che il mondo stesso non sarebbe cascato se lei prendeva un autobus tutte le mattine insieme agli altri studenti. Lei saltava interiormente dalla gioia, perché questa possibilità era al là delle sue più rosee speranze, ma la nonna, ripresasi dallo sbalordimento, le chiese di uscire, e ci fu un Colloquio a Porte Chiuse tra la nonna e la superiora. I toni erano abbastanza concitati perché lei, fuori, sentisse qualcosa, frasi misteriose come 'dovrà dirglielo prima o poi'. La nonna, dopo, non disse nulla, fece l'iscrizione e poi l'argomento rientrò tra quelli non graditi, e ad ogni domanda la risposta era 'vedremo a giugno, pensa agli esami adesso'.
    Arrivò un giugno caldissimo, lei finì gli esami con il massimo dei voti, la mamma da tempo non veniva più la domenica, si limitava a telefonare, e anche questa era cosa su cui non chiedere. L'argomento liceo era stato scalzato dall'imminente partenza per il mare, e lei, per la prima volta, tremava al pensiero della solita vacanza irreggimentata e al bacio ella suora dalle labbra rosse che l'attendeva ad ogni arrivo, seguito invariabilmente da 'ma come sei cresciuta' anche se lei sapeva benissimo di essere piccola di statura. Era quasi san Piero quando, in un pomeriggio di afa tanto pesante che sembrava che l'aria avesse preso consistenza solida, lei e la nonna uscirono per andare nella lontana merceria che vendeva le migliori canottiere con gli spallini. La nonna indossava il suo bel vestito di seta blu a pois, con le maniche lunghe e la gonna a pieghe, il cappellino blu di paglia di Firenze, calze, che nessuna signora esce senza anche nei giorni più torridi, e scarpe blu chiuse, coordinate con la borsetta. Aveva rinunciato ai guanti solo perché l'unico artigiano che li faceva in città aveva chiuso da qualche anno. Lei sudava, e nel piccolo negozio buio insistette invano per delle canottiere a fiorellini, cosa fuori dai canoni della nonna, per la quale la biancheria non poteva che essere candida. 'Ma cosa ti è venuto in mente?' le disse mentre uscivano, e furono le sue ultime parole. Chissà, forse sarebbe successo ugualmente, la nonna era vigorosa ed attiva ma era più vicina ai novant'anni che agli ottanta. E forse, disse poi uno dei medici dell'ambulanza, se non avesse indossato sotto il vestito la sottoveste e la canottiera, forse il colpo di calore non le sarebbe stato fatale.
    Ma questo le tornò in mente solo molto tempo dopo, visse i giorni successivi chiusa in una stanza in un luogo che non conosceva, persa in una specie di capogiro in cui i pois del vestito della nonna le ruotavano intorno vorticosamente, mentre le canottiere ripiegate che erano uscite dal sacchetto facevano contrappunto in una girandola lenta ed aggraziata, come si conveniva alla biancheria nuova e candida.

    Quando uscì dalla stanza la mamma la aspettava in una casa luminosa, con tutte le finestre spalancate sull'aria calda e profumata di un giardino. Una bambina seminuda gorgheggiava in una culla di vimini nell'erba, un gatto cercava di entrarci e un ragazzino in costume bagnato lo allontanava ridendo. Lei non capiva niente, nemmeno le parole sembravano funzionarle, e le prime che riuscì ad articolare furono 'ho caldo'.
    "Per forza, togliti quella canottiera, per favore" rispose la mamma. Lei la guardò intontita, continuando a non capire.
    "Ma non è ancora san Piero, e quelle con gli spallini non le ho, dobbiamo andare a ricomprarle adesso". La mamma sembrava più stupita del dovuto e la guardò a sua volta a lungo prima di risponderle.
    "Mi pare che si dica san Pietro, ma cosa c'entri con la canottiera continuo a non capirlo. Avrai un costume da bagno in valigia, no, fatti un bel bagno in piscina e vedrai che ti rinfreschi subito".
    Capì all'improvviso di essere stata catapultata dal corso degli eventi nel mondo, e che il mondo non conosceva affatto i suoi canoni, e funzionava secondo altri canoni che le erano del tutto sconosciuti. Altri ne sarebbero stati annientati, lei, invece si sentì scoppiare dalla felicità. Era come se avessero rimosso tutte le protezioni da cui era stata avvolta, tutte le cautele in cui era stata cresciuta, e adesso, in un attimo di chiarezza lancinante, capiva tutto: perché non era gradito parlare della mamma, che cosa la nonna avrebbe dovuto dirle prima o poi, perché era tanto ostile alla scuola nell'altra città - quella dove si trovava ora, con la sua nuova famiglia allargata. La bambina senza canottiera era sua sorella, dunque, e bastava a spiegare tutte le assenze della mamma. Corse a prendere il costume, si tuffò in piscina e ci rimase tutto il pomeriggio.

    Anni di cautele, e una dieta a base di minestrine e crescenza e merende con té leggero e biscotti secchi l'avevano fatta crescere pallida e minuta. Quell'estate crebbe di quindici centimetri, acquistò forme da donna, si rese conto di avere dei begli occhi e dei bei capelli e si trovò abbronzata per la prima volta in vita sua. Con la mamma e i due fratelli acquisiti passò molto tempo in un campeggio sul lago - lo stesso lago dell'istituto e del santuario, ma non avrebbe potuto essere più diverso ai suoi nuovi occhi. Scoprì che la categoria dell'underwear comprendeva anche i reggiseni colorati, e mutande che la nonna non avrebbe nemmeno considerato tali, ma che tutte le ragazzine della sua età sembravano apprezzare moltissimo. E l'apoteosi fu l'inizio della scuola, seduta in un banco a metà della quarta ginnasio in una scuola senza suore, senza grembiule, senza canottiera, vicino ad un ragazzo moro che, inaudito, le sorrideva amichevole.

    Edited by Capitan Golia - 24/6/2012, 20:33
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