I RACCONTI

contest letterario

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  1. tata ogg
     
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    porco mondo disco!

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    METTI LA CANOTTIERA! (II, ndr)

    Mariella mi conosce bene. Mi si potrebbe obiettare che dopo tanto tempo insieme sarebbe strano il contrario. Sì, ma lei mi conosceva bene già dopo pochissimo che uscivamo insieme. Conosceva le mie passioni, le mie idiosincrasie, le mie abitudini, i miei gusti in fatto di musica, di libri, di abbigliamento, di cinema, di condimenti per la pasta, di gelato. Ma quello che mi sorprendeva di più, soprattutto all'inizio, era la sua capacità di indovinare persino i miei pensieri.
    Mariella mi ama molto. Anzi, mi amava molto fino a ventisei giorni fa. Non ho bisogno di fare conti. Ieri erano venticinque giorni, oggi sono ventisei.
    Mi alzo dal letto e la mia prima attività, prima ancora di andare in bagno, è quella di mettermi a cercare le brioche. Ho una passione insana per le merendine industriali. Le mie preferite sono le Brioss all'albicocca, ma anche i Flauti, le Fette al Latte, le Girelle... e non disdegno qualunque altra merendina per la colazione purché confezionata, di qualunque marca, non sono razzista. Persino quelle di sottomarca da discount. Anzi, soprattutto quelle.
    Mariella, pur non essendo una salutista fanatica, sostiene che le brioche industriali siano il male. Sono piene di conservanti, dice, di grassi idrogenati che fanno malissimo, insiste, di addensanti ed emulsionanti artificiali. Molto meglio un cornetto al bar, allora, un biscotto, una fetta biscottata con la marmellata.
    Io, intendiamoci, sono d'accordo con lei. Sono consapevole di quanto male mi facciano le merendine comprate al super, ma questo non mi impedisce di continuare a comprarne. Così lei si vede costretta a nascondermele. Non le butta, le nasconde, mi dice. Ma io non sono mai riuscito a trovarle.
    E nemmeno stamattina le trovo. Rinuncio.
    Squilla il cellulare. Mi precipito sperando di vedere il suo nome sul display e ovviamente rimango deluso. E' sua sorella.
    -Ciao. Dormivi?
    -Ciao, Elena. No, no. Ero alzato.
    -Stavi cercando le merendine?
    Forse sono un tipo troppo prevedibile. Forse è per questo che è così facile conoscermi.
    -Ma tu sai dove le mette? – le chiedo a mia volta.
    -Le butta. Altrimenti a quest'ora la casa sarebbe piena di merendine e nient'altro.
    -Ma no che non le butta! Almeno non tutte.
    -Vabbé – cambia discorso lei – Come stai? Hai dormito? Che fai oggi?
    -Sto bene, Elena. Sto bene. – dico con il tono di chi non sta bene per niente, rispondendo solo a una delle tre domande. E invece chiedo a lei: – Allora? Hai notizie? Come sta? Cosa dice?
    -Ancora non ci parliamo. Non so niente.
    Le due sorelle hanno litigato quando Mariella ha detto ad Elena che mi aveva lasciato. Elena fa il tifo per me, ma così non mi aiuta. Io ho bisogno di qualcuno che mi dica che Mariella non è felice affatto con quell'altro e che si strugge al ricordo di me e non sa come fare a tornare a casa. Oppure che mi tolga ogni illusione aiutandomi a cominciare a guarire.
    Elena mi sta vicina, mi sostiene, si preoccupa, ma non è una fonte di informazioni.
    -Vieni a fare shopping con me? – incalza lei, mentre io sto pensando a chi potrebbe dirmi qualcosa di utile.
    -Mmmfff – bofonchio io.
    Apprezzo quello che Elena sta facendo per me, ma mi distoglie dal mio dolore, dal mio lutto, dal mio stare ad aspettare che la porta si apra e Mariella rientri in questo appartamento, dal mio fissare il cellulare perché squilli e la voce di Mariella mi dica che mi ama ancora e che ha fatto un grosso errore a lasciarmi.
    -Vabbè, allora vengo io da te. Ci vediamo più tardi. – conclude lei e riaggancia senza darmi la possibilità di replicare.

    Mi faccio una doccia bollente. Niente di meglio, per rammollirsi ulteriormente, per macerarsi nella propria autocommiserazione, di una lunga doccia bollente. La doccia fredda tonifica, la doccia calda rammollisce, ovvio.
    Mi rimetterei in pigiama, ma un rigurgito di dignità mi fa decidere di farmi trovare da Elena in un abbigliamento più decoroso. Apro il cassetto della biancheria e rimango a fissarlo mentre un flashback mi riporta alla prima volta che Mariella e io facemmo l'amore.
    Portava una camicetta verde acqua molto chiara e sotto una canottiera verde petrolio. Quando le sbottonai e tolsi la camicetta, la canottiera di cotone, a costine molto sottili, le aderiva al corpo disegnandone le forme più belle che io avessi mai visto.
    Ben presto scoprii che di canottiere ne aveva una vera e propria collezione. Le abbinava per colore e foggia a camicette e vestiti. Quando fu il mio turno di spogliarmi mi vergognai della mia banalissima canottiera stile muratore, un po' slabbrata dall'usura.
    Nella mia testa la canottiera era sempre stata strettamente legata alla voce di mia madre che ripeteva “Metti la canottiera!” con la stessa intonazione, la stessa cieca convinzione, con cui mi diceva “Di' le preghiere!” o “Chiedi per favore!”. Mettere la canottiera era per me un comandamento introiettato che mai avevo messo in discussione, ma piuttosto subìto passivamente alla meno peggio.
    Mariella mi aveva aperto un mondo.
    Mentre dopo l'amore giacevamo una tra le braccia dell'altro, l'argomento canottiera era stato sviscerato con l'interesse e la passione che solo un argomento dopo la prima volta può avere.
    -La canottiera ha senso solo se aderisce bene al corpo. Quando fa freddo una camicia o una maglia che lasciano spazio intorno alla pelle fanno disperdere il calore: persino un pile o un maglione pesante vedrebbero vanificato il loro lavoro. E' la canottiera che trattiene il tepore. Non importa che sia di lana, anche di cotone va benissimo perché la sua funzione è solo quella– mi aveva spiegato e aveva continuato facendomi un vero e proprio trattato degno di pubblicazione.
    In seguito le canottiere entrarono di diritto tra i regali che ogni tanto le facevo, ma soprattutto cambiò il mio rapporto con la canottiera.

    Ed eccomi qui, davanti al cassetto della biancheria, con le immagini di Mariella che si sfila con naturale eleganza la canottiera che mi si dissolvono negli occhi, come nella migliore tradizione cinematografica.
    La donna che ha cambiato il mio rapporto con la biancheria intima se ne è andata ventisei giorni fa, dicendomi che se non l'avesse fatto sarebbe rimasta al mio fianco con eterno rimpianto.
    -E tu non vuoi accanto una donna che rimane per senso di lealtà, ma con un grosso rimpianto nel cuore– mi ha detto senza l'accenno di punto interrogativo, come se non esistesse alcuna possibilità che io potessi pensarla in modo diverso.

    Mi vesto e poi così, a tempo perso, mi metto a cercare le brioche. Una briochina adesso mi darebbe un minimo di consolazione. Provo nell'armadietto dei medicinali. Niente. Nella scarpiera all'ingresso. Niente. L'ultima volta che sono uscito di casa, qualche giorno fa (quanti? Cinque? Dieci?) ne ho comprati alcuni pacchi. Mi sono durati meno di ventiquattro ore. Decido di mandare un sms ad Elena perché ne porti lei. Visto che ha deciso di venire almeno che si munisca di generi di conforto.
    Mi risponde con una parola sola:

    Drogato

    !
    Non si è disturbata nemmeno ad aggiungere due punti e una parentesi per una faccina.

    Mi ha lasciato per questo? Mariella mi ha lasciato perché sono drogato? No, non può essere per quello. Quando stava con me mi contenevo. E poi c'era questo rito: io ne compravo pacchi interi, lei mi lasciava un paio di merendine e poi con nonchalance imboscava il resto.

    Sono ventisei giorni che mi chiedo dove ho sbagliato. Cosa ne ho ricavato? Un elenco che può sotterrarmi. Una tale lista di difetti e di spigolosità che la domanda è diventata: come ha potuto rimanere con me tanto a lungo?
    Il difficile, lo ammetto, è saper distinguere tra il compiacimento dell'autoflagellazione e l'obiettivo, sereno esame di me stesso. Essere obiettivi, in certe situazioni, è quanto di più difficile un uomo possa provare. Occorre bilanciarsi tra la tentazione di eccessiva indulgenza e quella, ancora più dannosa, di impietosa intransigenza.

    Mentre filosofeggio squilla di nuovo il cellulare. Di nuovo mi precipito a vedere se è lei. No, è mia madre. Sono tentato di non rispondere ma conoscendola so che me la ritroverei davanti alla porta prima di poter dire amorevolissimevolmente.
    -Tesoro, sono la mamma.
    -Sì mamma, ho visto sul display. Come stai?
    -Uh, non me ne parlare. Quest'anca mi fa vedere le stelle. E tu? Come stai? E' tornata quella là? - “Quella là” è tale solo da ventisei giorni. Prima era Mariellina tua, Mariù, o qualunque altra cosa desse l'idea che lei era una suocera atipica: in totale adorazione della donna che le aveva “portato via” il figlioletto.
    -No, mamma. Non è tornata.
    -Ascolta me: chi non ti vuole non ti merita!
    -Già – rispondo senza convinzione.
    -Ma stai mangiando, sì?
    -Sì, mamma – assumo il tono monocorde del bambino interrogato.
    -Non è che ti stai ubriacando o drogando, no?
    -No, mamma. - Perché non ho pensato ad ubriacarmi? Mah, non sono il tipo. E lei, da madre che non ha il coraggio di guardare in faccia la reale dipendenza del figlio, omette di chiedermi se mi sto nutrendo solo di brioche.
    -E ti vesti bene? Guarda che la tv ha detto che ora arriva il freddo vero. Mi raccomando, mettiti la canottiera!
    -Sì, mamma. - chissà perché, invece di sorridere dell'ironia, mi viene voglia di piangere. Inghiotto e cerco di concludere la telefonata in fretta.

    Forse piangere mi farebbe bene, ma quando sono finalmente libero di farlo l'attimo è andato. Piangere è un lusso. Nemmeno in questi ventisei giorni non ho pianto mai. Una cosa che adoro in Mariella è che lei piange sempre. Cioè, non sempre. Ma si commuove facilmente. A guardare un film, leggere un libro o anche solo la mail di una persona cara che racconta qualcosa di emozionante. Piange quando le amiche le annunciano di essere incinte e quando i bambini nascono. Piange quando vede ingiustizie e si sente impotente, quando guarda le olimpiadi, persino alle manifestazioni. La folla, soprattutto se motivata e pacifica, la commuove. Quando mi ha detto “ciao” (addio lo dicono solo nei film) aveva le lacrime che le scorrevano in faccia. Io no.

    Sarò arido? Sarà per questo che mi ha lasciato?
    E l'uomo con cui sta ora come sarà? Io l'ho visto un paio di volte e non mi è parso granché. Ma questo non significa niente, suppongo. L'impressione che mi ha fatto è di uno molto sicuro di sé, anche troppo per i miei gusti, uno di quei cicisbei che le donne adorano, perché sono sensibili ed evoluti e non ragionano con il cazzo. Chissà quanto piange pure lui! E chissà quanti bei pianti si faranno insieme! La scena, che prende forma nella mia mente, mi fa improvvisamente scoppiare a ridere. Forse sublimo così il pianto che non esce? Non so, ma la cosa continua a sembrarmi comicissima e rido da solo come un cretino pensando a loro due che al cinema tengono un braccio sulla spalla dell'altro mentre con l'altra mano si soffiano rumorosamente il naso. Suona il citofono mentre sto ancora ridendo. E' Elena.
    Deve aver fatto le scale di corsa perché ci ha messo niente e quando arriva è trafelatissima.
    -Che succede? - chiedo allarmato.
    -A me? Che succede a te! Credevo stessi piangendo. Al citofono mi hai risposto con una voce!
    -Ma no, stavo ridendo.
    -Ridendo? - dice lei con il tono di chi chiede “Nevica?!?” a giugno. Forse pensa che stia impazzendo.
    -Ma sì... m'è venuta in mente una cosa.... - ma poi mi rendo conto che a raccontarla non fa ridere e cerco di cambiare discorso. - Mi hai portato le merendine?
    -No, mi spiace. Oggi i negozi sono chiusi e ad arrivare fino al centro commerciale mi partiva mezza giornata. Te ne ho portate due che avevo in casa io. - e tira fuori dalla borsetta due Buondì. I Buondì sono quelle che mi piacciono di meno. Hanno la pretesa snob di somigliare a delle vere brioche fresche ma in realtà sono sempre troppo asciutte per mangiarle senza fare la zuppetta nel latte. Quello è il destino dei Buondì, l'unica vera redenzione: morire a bagno nel cappuccino. Mi accontento. O meglio mi rassegno. Metto sul fuoco la macchinetta del caffè e nel microonde una tazza di latte per me.
    Chiacchieriamo del più e del meno in attesa che salga il caffè. Mentre mi racconta qualche episodio buffo del suo lavoro penso a come sia diversa da sua sorella. Esteriormente ma anche come carattere si assomigliano pochissimo. Ad un certo punto la interrompo a bruciapelo per chiederle:
    -Ma tu, la porti la canottiera?
    -Io? raramente. Perché?
    -No, così... - Ecco. Diversissime. Lo dicevo io.
    Elena rimane un'oretta. Parliamo rigorosamente di argomenti neutri ed innocui. Io e lei riusciamo ad essere sinceri e profondi e a parlarci di cose intime solo quando non siamo nella stessa stanza. Al telefono, per email, persino per sms, ma non di persona. Di persona diventiamo banali e superficiali. Al limite riusciamo a divertirci, a fare i buffoni, ma non a parlare seriamente.
    Se ne va con la promessa di tornare domani o dopodomani.

    Quando rimango solo improvvisamente mi prende la smania di fare qualcosa. Qualcosa di forte, di definitivo. Qualcosa in cui sia io a prendere la decisione e non a subirla. Qualcosa che affermi che io ci sono. Sono qui. E sto male. Potrebbe essere raparmi a zero. Se avessi capelli folti e lunghi sarebbe perfetto. Ma io sono già pelato. Devo farmi venire qualche idea. Mi guardo intorno e vedo sul tavolino basso del soggiorno una foto di Mariella e me in montagna, i primi tempi che stavamo insieme. Le sue cose! Devo sbarazzarmi delle sue cose rimaste qui. Mentre formulo questo pensiero ho una stretta al cuore. Significa rinunciare, smettere di contare i giorni, voltare pagina.
    Sospiro.
    Forse è giunta l'ora.

    Da dove cominciare? Dalle sue cose personali, ammesso che ne abbia lasciate. Torno in camera da letto. Sopra il mio cassetto della biancheria c'è il suo. Mi rendo conto che in tutti questi giorni non l'ho mai aperto. Non ho l'abitudine, mi sarebbe sembrata una violazione della privacy, come aprire la sua posta. Ma stavolta lo apro. Avrà lasciato delle mutandine, dei reggiseni? Avrà lasciato delle canottiere?!?

    Per un attimo, aperto il cassetto, ho un giramento di testa, una specie di scollamento dalla realtà. Il cassetto è pieno di merendine e brioche. Sono sfuse e messe ordinatamente ad occupare tutto lo spazio possibile. In centro, in cima all'ultimo strato, noto un biglietto. Lo apro e leggo:

    Ora non ho più alcun diritto sulle tue merendine.
    Tutte le altre, in questi anni, le ho sempre portate a quell'associazione
    vicino alla stazione dove danno i pasti ai senza tetto.


    Arretro di qualche passo e mi siedo sul letto. E' la prima volta che mi “parla” da quando se n'è andata. Non un messaggio, non una mail, una telefonata, un biglietto. Questo è il primo. Improvvisamente, senza poterci fare assolutamente niente, comincio a piangere. Piango le lacrime di anni, tutte quelle che non ho pianto da quando mi ha lasciato ma anche prima. Le lacrime che non ho pianto quando ha perso il nostro bambino, quelle che non sono venute quando è morto mio padre, le lacrime che non sono uscite quando Elena ha avuto il trapianto ed è rinata a nuova vita. Non riesco più a fermarle ma neanche vorrei. Piango. Piango. Piango. E, piangendo, mi addormento.

    Non devo aver dormito più di dieci minuti, ma quando mi sveglio mi sento diverso. Più rilassato, più sereno. Allora è vero che piangere fa bene. Mi alzo e torno al cassetto. Sto lì a guardare per il gusto di abbracciare quel ben di dio con lo sguardo.
    Non ci penso molto. So cosa fare. Vado a prendere una di quelle due grosse sporte che usiamo per la spesa, quelle che si appoggiano aperte sui carrelli del supermercato. Quando ho finito è praticamente piena, ma abbastanza leggera. Non c'è bisogno di prendere la macchina. Il ventisei sbarrato (che combinazione!) ferma proprio vicino alla stazione.

    Quando torno a casa con la sporta vuota è già pomeriggio. Giro l'angolo che dà sulla mia via e mi fermo. Davanti al mio portone c'è una ragazza che assomiglia molto a Mariella. Mi volta la schiena. Non può essere lei. Mi avvicino lentamente e lei a quel punto si gira.
    E' Mariella.
    Dall'altra parte della strada la macchina di Elena parcheggiata in doppia fila, con Elena al volante. Le guardo entrambe senza sapere cosa dire.
    Arrivo all'altezza di Mariella, che mi guarda timidamente negli occhi e mi dice:
    -Ciao.
    -Ciao. - rispondo senza fiato.
    -Non avevo le chiavi..... - lo dice come se dovesse giustificarsi di essersi fatta trovare in strada. Io non so che risponderle e infatti le rispondo una cosa senza senso:
    -Le rivuoi?
    Lei apre la bocca per parlare e io penso che sono un cretino e che mi sto facendo del male da solo, che piangere è bello ma non sarà carino scoppiare a piangere davanti a lei e a sua sorella che ci sta guardando dalla macchina mentre lei mi risponde che è solo venuta a prendere qualcosa.
    Ma lei dice con un filo di voce:
    -Mi piacerebbe.
    E infatti scoppio a piangere davanti a lei e a sua sorella che ci sta guardando dalla macchina. Ma lei ha detto mi piacerebbe e adesso mi sta abbracciando e piangiamo insieme come due cretini e così rido mentre piango e l'abbraccio e la bacio.
    Elena scarica le valige in strada, saluta con la mano e fa il gesto con il pollice e il mignolo vicino alla faccia che significa ci sentiamo, mette in moto e se ne va.
    Io faccio un passo indietro e guardo Mariella. Ha la faccia tutta impiastricciata di lacrime sue e mie. Ha il cappotto sbottonato. Dalla maglietta spunta un pizzo ecru. La mia canottiera preferita.
     
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